Linea dell’arte di C.E. Gadda (1943)

«Primato», a. IV, n. 4, Roma, febbraio1943, pp. 63-64; W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit. e in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

Linea dell’arte di C.E. Gadda

Una puntigliosa coscienza autocritica perfino un po’ corrucciata e quasi pronta a prevenire una formulazione altrui per bisogno di una completezza individualistica ed obbiettiva, che va dalla precisazione linguistica all’interpretazione dei sentimenti (una volontà di non lasciarsi sfuggire nulla della propria visione del reale per farla poi travolgere da un ritmo fantastico dei piú impetuosi e bizzarri), costituisce la prima immagine di Gadda al critico che chieda all’autore studiato di confessare le sue intenzioni, i suoi desideri, il suo timbro personale prima della perfezione o approssimazione espressiva. «Arte che si esime cosí facilmente dalla granulosa precisione elencatoria di altri scrittori (p.e. del sottoscritto), da cui ti senti insabbiare il palato, come da una specie di tritume vetroso di caramello, non piú solubile in bocca per quanta saliva tu vi adibisca» dice Gadda in una recensione a un libro di Tecchi[1], e colpisce, senza velato desiderio di smentita, quel suo impasto di entità scabre e pungenti, che ogni lettore avverte nelle sue opere. E sempre nella stessa recensione, condannando ogni partecipazione pratica della sensualità dell’autore alla vita dei personaggi («Ed è una tortorata sulla testa che vorrei inferire a tutti i maialoni di proposito, che vituperano il proprio personaggio con la bava d’una libidine in conto assoluto») rivela un altro punto essenziale della sua poetica e del suo fondo piú vero: il bisogno di una oggettivazione dei suoi personaggi anche se frutto di esperite vicende e soprattutto una serietà umana, una sorta di purezza virile, sdegnosa di ogni morbida ambiguità. Se questo tono morale non manca mai anche ai piú gustosi pezzi di varietà (ma si noti subito che, anche nei saggi di divertimento, il risultato non è mai il riso o il sorriso liberato, ma piuttosto la sensazione di uno sguardo attento e spesso accigliato, di un gesto nervoso e solo superficialmente bonario), ogni possibile atteggiamento di racconto moralistico è pure lontanissimo nel gusto profondo della realtà nella sua struttura piú multiforme, nella sua espressione verbale accettata senza riserve, senza remore: «I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezza: e voglio anche i triploni e i quadruploni ecc. Non esistono il troppo né il vano, per una lingua»[2]. Né d’altra parte ricchezza come in certi esempi di scrittura automatica e gergale, per un residuo di pregiudizio romantico della lingua come esclusiva creazione popolare. Come la sua visione della vita vuol essere totale, ma non un barbaro panismo, la sua poetica non vuol perdere né la ricchezza né la fondamentale esigenza di controllo, di forza centrale, di ordine (ed anzi l’autobiografo ci presenta un figurino di sé «pignolo» con un «bisogno di ordine che ha reso cosí poco felice la mia vita») che fa ripensare all’autocritico di una tradizione oraziana giunta fino a lui. «La ruvidezza e durezza stupenda di alcuni carmi del 3° e 4° libro hanno un che di granitico, di dogmatico, di imperativo. L’amore del Nostro per Orazio deve esser tenuto presente, anche a valutare la fattispecie della calligrafica prosa gaddiana». Posizione umana e stilistica dunque non abbandonata, non idilliaca, ma tesa, controllata, desiderosa di concreto e d’altra parte eccitata, risentita, verso un ritmo che da nervoso tende a farsi musicale.

Gadda oscilla fra il racconto e il saggio, e specialmente all’inizio, fra il racconto-bozzetto degli scapigliati e il saggio che viene a trovarsi fra gli illustri esempi di Baldini, Cecchi ecc. E questa oscillazione non è una esitazione culturale, ma l’effetto di una ispirazione costruttiva a scatti, sussultoria, che obbiettiva il personaggio, ma non lo svolge che a tratti e sulla cadenza di una intima reazione alle vicende e alla realtà. Se, a parte il risultato che essa consegue, va notata inizialmente questa forza istintiva come elemento costante della sua personalità, il primo libro La Madonna dei filosofi (1931) ci indicò un tono complessivamente raggiunto, ma tenue, quasi piú aggraziato o calligrafico che poteva ingannare sulla coraggiosa e ostinata durezza delle prove successive. La furia di sperimentare, di provarsi in tentativi anche tecnici, che può presentare l’opera complessiva di Gadda come la singolare espressione di un risentimento personale e insieme come opera di artista che sforza la sua materia, tenta in un infinito esperimento di raggiungere l’arte; è piú velata, nella Madonna, da una grazia di saggista e di umorista che si raggiunge e si adegua nel suo pezzo non senza bravura. Perfino la sua «milanesità» che colpiva come elemento vistoso[3] è piú episodica, pittoresca, bozzettistica.

Nella Madonna la sua pagina è veramente piú facile, meno risentita e quindi anche esteriormente piú fusa, piú scorrevole, piú amabile. Cosí il racconto, l’ultimo pezzo del volume, è discorsivo, divagato, incapace di dar una forte vita ai pupazzi che perciò somigliano a personaggi sbiaditi e un po’ caricaturali di qualsiasi romanzo, intorno al personaggio chiave del sentimento gaddiano, la giovane donna incantata dalla morte del fidanzato, riscossa alla vita dal precipitoso finale. Tutto è come velato, e la vivacità dello stile, assai disuguale, è diluita in battute che sembrano quasi i primi scoppi di un motore non ancora acceso. Ci sono le sue mosse brusche e raccorcianti («con rondini e tutto»), la sua buffa onestà erudita che insapora la sua lingua ricca di riferimenti culturali che si prolungano cosí esplicativamente in un accompagnamento di ironia assorta ed ambigua, ci sono – e scoperte ancora come battute piú che come parte di un tessuto compatto – le sue definizioni mordenti di situazioni morali condannabili («la tubercolosi che rapí Spinoza all’affetto dei rabbini, e alla cristiana benevolenza di tutti i dottori di tutte le confessioni cristiane»). Vi sono motivi aperti della sua serietà sdegnata, ma trovano sintesi solo in una fantasia ancora bozzettistica, e non mancano d’altronde segni di una poeticità quasi morbida: «chiamano vita, molte volte, una spettrale sopravvivenza». A parte la prova poco felice del racconto, nel primo libro appare, in prose piú autobiografiche, il nucleo piú umano di Gadda, appassionato, sincero, con un certo tormento di non essere a posto con gli altri e con se stesso: «Che devo fare? Quando cammino, mi pare che non dovrei. Quando parlo, mi pare che bestemmio, quando nel mezzogiorno ogni pianta si beve la calda luce, sento che colpe e vergogne sono con me». È il motivo personale che dà agli scatti di Gadda di fronte alla realtà una serietà piú intensa del semplice scoppio nervoso o moralistico. Ma questo motivo frutterà piú oltre, e specialmente nella Cognizione del dolore. Per ora, accanto a pezzi anche troppo conclusi (La morte di Puk), si impongono esercizi di gusto, come Teatro, Cinema, Manovre d’artiglieria. Hanno tutti e tre una misura costruttiva, che aderisce anche alla memoria del lettore con un’atmosfera piú sicura ed organica: nel primo soprattutto c’è lo scatenarsi di una furia grottesca, di una ironia in funzione di una visione esaltata della realtà, il liberarsi di una reazione all’apparenza comune che potrebbe anche afflosciarsi nell’aria di un bozzetto faldelliano se non sopravvivesse uno scatto, un piglio che sono già al di sopra di un humour bonario e soddisfatto di un risultato piacevole. E la lingua, ben lungi da un esercizio ironico, sfocia in un lirismo eccitato, che, se è a volte faticosa ricerca di originalità anche fastidiosa e raziocinante (come quando, per indicare una statua di re Vittorio, dice «l’effigie del tarchiato e conciso allocutore che, presso il colle di San Martino, cagionò gravi danni ai ricolti, diffidando i battaglioni ammassati per l’attacco dal consentire a trasferimenti funesti, indegni della gioventú piemontese»), risulta in gridi nervosi e saporosi che non si prestano a pacata lettura: «C’era il presentimento dei cocomeri patriottardi».

Specie di declamazione («Genova, porta del rotolante mondo»), deviata però quasi sempre su di un piano allusivo ed evocativo. Se queste sono le punte della prima prosa di Gadda, esse sono anche la traduzione piú alta dello scatto piú intimo, del ritmo nervoso che origina la sua epica lessicale, la sua avanzata ora travolgente, ora impaludata da ghiribizzi ed elucubrazioni. Se poi resta sempre una dialettica interna dei motivi che concorrono in questa prosa, e insomma una poetica piú fumistica e una piú assorta e impegnata che si incontrano a volte in una grande felicità di vivezza espressiva («e sí e sí sembravano dire i cavalli»), e a volte in un impasto legnoso e indigesto, c’è però all’origine una unità di ispirazione violenta, che pur si inserisce in una riflessione letteratissima. La cultura, pure affiorante con esattezza e meticolosità volute, è in questa ispirazione di originale reazione alla realtà, alla lingua, ai sentimenti, quello che il latino è nel Folengo[4]: conta per i risultati e gli storpiamenti che egli ne ottiene con la massima coscienza e con il massimo istinto poetico, ma non costituisce affatto la base di partenza intellettualistica di un raffinato. Mentre d’altra parte la sua natura di saggista e di lirico della propria situazione nel mondo diversifica l’origine della sua prosa dalle esigenze di ultrarealismo, di baraonda gergale dei Céline o dei Dos Passos.

È nel secondo libro, Il castello di Udine, che la fisionomia di Gadda si precisa con maggior vigore e che, mentre si accentua la sua originalità espressiva oltre i tentativi precedenti, il suo temperamento fa un’irruzione piú decisa, travolgendo i pericoli calligrafici insiti in pezzi di divertimento che nel primo libro abbondavano, e comparendo in una esperienza essenziale della vita, al centro dunque della sua natura reattiva e risentita. L’esperienza della guerra che affiorava già qua e là nelle Manovre, perfino con astratta intensità («Oh madri! Sogni delle notti piú tetre questo sole vi supera, ecc.») e che risulta l’incisione piú profonda nella psiche di Gadda, quasi rivelazione maturata sotto le prime espressioni, esplode e forma poi la base piú sicura dei successivi contatti col mondo. Il castello di Udine: e con questo nome intendiamo senz’altro proprio quella sessantina scarsa di pagine che trovano il loro centro nella evocazione lirica del sischiel, del motivo che accompagna visivo e musicale la guerra sul fronte giulio ad un uomo che vi ha dischiuso la sua vita piú seria: la prova piú riuscita e piú fallita delle proprie forze, delle proprie idee. Unitarie al massimo grado, tanto da apparire come svolgimento di una rimembranza non episodica, non segnata da tappe pittoresche, queste pagine risuonano di un impeto convulso, di una polemica sanguigna non precedente ai fatti, ma necessaria e assoluta. L’urto di un temperamento serio, impegnativo con la realtà in un suo momento di eccezione, di approfondimento e di esaltazione insieme: la guerra per Gadda è una fuga violenta dalla mediocrità (donde il suo reagire all’antimilitarismo, alle rinunce con lo stato d’animo esasperato del reduce e dell’amante del concreto contro le formule vaghe) e insieme la realtà stessa che gli si presenta nella sua massima violenza di sofferenze, di passioni, di ottusa resistenza, fuori dei segni positivi o negativi di Dorgelès o Remarque, e piú, sotto il segno di ciò che chiamerà poi «la cognizione del dolore». L’arte di Gadda si fa cosí piú unita e i suoi elementi apparentemente eterogenei rivelano la loro origine quasi spasmodica da una prima parola senza equivoci. Parola che anche nella pietà ed autopietà («la stanchezza mi vinse, il cuore non tirava piú: e l’anima era un regolamento scaduto») dà un suono vibrato che permette anche all’humour di mescolarsi, senza la minima stonatura, in rapida sintesi, a moti accorati o polemici. «Il guaio vero è stato che l’“Alt!” della sandalina (del barbiere di Caporetto) non fece nessuna impressione a von Below, il quale arrivò invece da S. Lucia». Anche l’unica parentesi idillica che precede la tetra Imagine di Calvi, non sfugge alla spinta originale che ravviva l’idillio di punte e di figurine piú mordenti che carezzate. Qui lo stesso intervento, del resto assai sobrio, della cultura con la forza dell’immediatezza risente della volontà di trasferire tutto su piani non mediocremente risolutivi e praticamente sentimentali, popolareschi. Come la ricchezza di attributi preposti è indice di una esaltazione, di un geniale nervosismo di fronte alle cose che non appaiono nella calma e pittoresca oggettivazione dei classici, sotto il loro sguardo lungo e pacato. Tutto scatta e non per risultare gustoso, funambolesco, ma tragico, aderente al motivo di esperienza sdegnata.

Invece negli altri pezzi del volume (1934) ritorna piú il Gadda attento ai risultati stilistici, ai suoi esperimenti di scrittore, di saggista che può arrivare in certi momenti al taglio di incisiva intelligenza di Cecchi e perfino alla fluida bonarietà di Baldini. La polemica o resta ammorbidita o urge pratica come nel finale di S. Pietro in Montorio, ma non ha la vitalità organica e unificatrice del Castello.

Anche Le Meraviglie d’Italia (1939) sono saggi che non tendono ad unità di disegno narrativo e che in gran parte accentuano quel gusto tecnicistico di descrizioni i cui limiti fantastici vengono originalmente ridotti da un impegno alle cose nelle loro misure, nel loro significato piú metallico e strutturale. Anche questa era una tendenza naturale in Gadda e, lungi dal nascere da una semplice bizzarria, nasce da un fondo di onestà realistica e piú dal bisogno di offrire una materia non molle e non pittoresca ad un lavoro che ama durezza e scatto. La lingua fa un nuovo passo su di una direzione in lei insita; il tono di un serio e scrupoloso giornalista trova in queste cronache piú tecniche una coerenza di scrittura che si alza ad espressioni violente con maggiore lentezza, quasi con maggiore serenità obbiettiva: «Sospinti dai caccini, i buoi ed i tori arrivano invece con le loro gambe, lentamente alla fortuna scarlatta». Certo tutte quelle cifre e descrizioni tecniche di molte pagine sembrano un po’ un fil di ferro nel corpo di un pupo di gesso, appositamente scorticato in qualche punto a mostrare il suo sostegno piú duro, e certo alla fine danno oppressione e fastidio. Ma questo viene spazzato quando prevale una ventata di maggiore freschezza, di piú spavaldi urti con le cose (Sul Neptunia), di ritmo piú celere, o da un soffio di polemica piú diretta (come quello contro gli architetti milanesi in Libello dove Gadda mostra da buon lombardo di non scordarsi del civismo dei Parini, Verri, ecc.: «Arriverò a dire che per essere un buon architetto bisogna essere un buon cittadino, e aver anima profondamente sensitiva, onesta e cognita»). E ad ogni modo questo uso del tecnicismo significa un approfondimento nelle stesse qualità dello scrittore, una rinuncia agli effetti piú facili di una eccitazione di superficie, di una resa umoristica e perfino di una immediata espressione dello sdegno della esperienza. E ci sono cosí nuovi apporti al linguaggio, nuove possibilità di articolazione del linguaggio, che si vuol fare sempre piú concreto e magari legnoso, ma non pittoresco, che vuol assumere ogni esperienza senza faciloneria: come quella sudamericana che frutterà piú poeticamente nella Cognizione. E alla Cognizione, cosí carica di interiore conoscenza e di complessi nervosi nella figura di Gonzalo, sembra preludere per ricchezza di significati il pezzo piú sottile e rivelatore delle Meraviglie: Una tigre nel parco, un pezzo in cui Gadda ha trovato un raccordo poetico con il se stesso piú istintivo, con l’infanzia, un approfondimento dei moti dell’animo, del suo risentimento vitale giú in una zona prepsicologica, in un fondo fresco donde i suoi umori sembrano già nascere poetici e necessari: «I miei sensi, già avidi di cognizione, pativano, tra i fili alti dell’erba, l’arrembaggio notturno della paura».

La Cognizione del dolore (mi riferisco ai 7 tratti pubblicati dal ’38 al ’41 in «Letteratura») segna, dopo le prove delle Meraviglie, un tentativo di oggettivazione violenta della situazione umana nell’esperienza gaddiana, esplosione del nuovo epos (dopo quello del Castello), non immediatamente legato a ricordi e ad avvenimenti rivelatamente personali, ma in trascrizioni piú profonde ed oggettive. Sí, le esperienze precedenti si continuano e le ricerche di nuovi toni si moltiplicano, il ritmo si accentua, e il tecnicismo si innervosisce e serve come possibilità lessicale ad accelerare ed arricchire di nodi, di punte dure questa prosa torrenziale e sussultoria, e la battuta si inasprisce e si scioglie in dialoghi lunghi, quasi in un discorso continuo senza pause, senza dolcezze, ma tanto piú ricco di tanta melliflua prosa pittoresca. Il ritmo prevale e il brio, l’humour lo servono sempre piú senza soluzioni particolari da varietà, come sempre piú l’esperienza (la cognizione del dolore) si trasporta in profondo; l’urto e la compassione si fanno sempre piú potenti e legati quanto piú si distaccano dalla loro apparenza piú autobiografica (anche la guerra riappare fondamentale, ma spaziata come ricordo, come tragico sfondo lontano, misteriosamente presente). Il risultato poetico, per quanto non concluso da un racconto nel senso piú noto della parola, non vive isolato come nei saggi delle Meraviglie, ma entra in un’atmosfera, in un disegno. Gadda, si direbbe, qui lavora di affresco e i suoi «tratti» hanno una loro grandiosa continuità: un respiro che supera la pagina per quanto fitta, una voce di umanità, piú convulsa nelle macchiette e nei personaggi secondari (Pedro, il commerciante ambulante, il medico, il peone, ecc.) che si agitano stimolati anche da eterogenei elementi dialettali su bizzarri accenni di un fondo sudamericano, piú tragica nell’ombra della madre e nella figura di Gonzalo che riassume con i suoi crucci, il suo misantropismo di maniaca e virile solitudine, i motivi di un personaggio ideale apparsi nelle opere precedenti.

Il ritmo prevale, abbiam detto, come d’altra parte la pagina si influisce, si carica di notazioni essenziali pur prestandosi a quella specie di novelle piú spianate come quella di Pedro, finto sordo, all’ospedale militare. L’elemento poetico è piú serrato, senza divagazioni, si fa piú chiuso, piú incapace di espandersi in effetti di facile nostalgia. «Ma che cosa era il sole? Che cosa portava? sopra i latrati del buio». La fantasia è diventata piú ossessiva, piú incupita, ma anche piú capace di un disegno, di una costruzione vasta e dominata e il grottesco si spinge verso un epico in cui la lingua, al di sopra della rozza organicità del dialetto e della soluzione media italiana, vibra sempre piú libera e controllata solamente dalla sensibilità eccitata, dolorosa e dal senso ritmico che presiedono a questa urgenza espressiva. Lo stimolo alla scrittura si fa sempre piú lirico («E le cicale, popolo dell’immenso di fuori, padrone della luce»), e pure in tanto fervore di immagini la qualifica di barocco si rivela del tutto esteriore, perché qui l’esaltazione lirica nasce sempre da un urto, non da una semplice sensualità immaginosa: «Inforcò la bicicletta e divallò verso Lukones, con gomme pizzicottate dai sassi, che gli sparavan via da sotto le ruote, come da tante fionde ridestate nella terra».

Ci sembra cosí che la prosa di Gadda con la Cognizione si sia avanzata con notevole forza oltre il gustoso, oltre il praticamente polemico, verso un’arte che sale da un risentimento sempre meno superficiale, e si svolge sotto la condotta sempre piú imperiosa di un ritmo poetico. Non cessano i pericoli della pesantezza, della fatica dell’immagine che si raggiunge dentro la sua stessa ganga e insomma di un cibo che spesso fa groppo; ma per l’essenziale, una volta capiti tali limiti originari, la presenza di una ispirazione piú vasta e lirica ci pare l’indizio di uno svolgimento decisivo, di cui già abbiamo una prova nell’ultimo libro: che è uno dei documenti piú interessanti della letteratura del nostro tempo.


1 «Letteratura», gennaio 1940, n. 13.

2 Risposta ad un referendum della «Ruota», su lingua letteraria e lingua d’uso, marzo 1942.

3 Sia accennato di passaggio, anche se con intenzione, che questo nuovo decisivo apporto milanese alla nostra prosa d’arte riesce sommamente grato a chi è stucco della misura toscana e toscaneggiante del bel pezzo fragrante e croccante, e che d’altronde la «milanesità» in Gadda è centrale, indispensabile non solo come base sociale e geografica della sua regione, che trova un esempio estremo nella battuta del «tram 24» del recente Concerto di centoventi professori, ma proprio come fonte tradizionale di quel suo oscillare fra bizzarria e spirito poetico, tra sodezza e ghiribizzo, fra realismo e surrealismo.

4 Si veda per la lingua di Gadda il saggio sul Castello di Udine di G. Contini in Esercizi di lettura, Firenze, 1939, e quello di G. Devoto, in Annali della Scuola Normale di Pisa, 1936.